Il lavoro è di grande importanza nella vita delle persone ed è il fondamento del nostro paese, come scritto nella Costituzione italiana. Essendo un'attività delle persone con tale importanza dovrebbe essere non dannosa per se stessi, gli altri e l’ambiente, dovrebbe essere utile, arricchente a livello personale, capace di far crescere in conoscenza, capacità e virtù. Purtroppo però il lavoro è diventato solo un mezzo per avere soldi con i quali comprarsi anche quello che la pubblicità ci dice sia indispensabile per vivere. Ma si sa che la pubblicità fa il suo interesse e riesce a dimostrare che il superfluo è indispensabile.
Provate a guardare cento pubblicità qualsiasi alla televisione nei programmi di punta, sono di prodotti che se non comprassimo vivremmo bene lo stesso, anzi meglio perché risparmieremmo soldi spesi inutilmente. Ma invece ci siamo fatti convincere che senza quei prodotti siamo poveri e quindi abbiamo eserciti di persone che pur di comprarseli fanno qualsiasi lavoro, non importa se odioso, noioso che non serve a niente e nessuno o peggio ancora, spesso nocivo per se stessi, gli altri e l’ambiente. Questa situazione è stata determinata dal messaggio che il lavoro deve portare a casa soldi, punto e basta. Con tanto di benedizione di sindacati, partiti e chiesa che non mettono in discussione la qualità e il senso del lavoro e quindi di conseguenza la qualità della vita delle persone.
Eppure la gente è sempre più frustrata dal lavoro che fa, dal non senso che ne ricava, dalla mancanza di scopo, di utilità. Per non parlare poi dell’arrivismo, delle lotte senza quartiere con i colleghi per farsi le scarpe vicendevolmente con tanto di crisi, depressioni, stress e burn out. Si viene spinti a performance esagerate, bombardati di compiti pur di battere la concorrenza, richieste di reperibilità costante grazie alle nuove tecnologie, che in teoria dovevano farci lavorare meno e invece ci fanno lavorare sempre di più.
Tutto questo lo diciamo da anni e convinti di ciò, ho scritto nel 2012 assieme a Simone Perotti il libro Ufficio di Scollocamento. Una intuizione determinata anche dalla ricerca, lo studio e l’esperienza diretta costante che ci ha dimostrato la validità della nostra idea, poi confermata attraverso le decine di corsi di formazione fatti proprio sulla possibilità di scollocarsi da un lavoro che non ci soddisfa e di cui non se ne capisce più il senso e l’utilità effettiva.
Ma ora abbiamo anche una ennesima e autorevole conferma delle nostre tesi, il professore di antropologia presso la London School of Economics, David Graeber ha scritto un libro con il titolo: Bullshit Jobs (I lavori del cavolo Ed. Garzanti). Graeber fa una approfondita e ampia analisi del fenomeno e riporta varie testimonianze di persone che ad esempio sono letteralmente disperate di fare un lavoro che non serve a niente ma che gli stessi superiori dicono di dover continuare a fare.
Graeber cita sondaggi fatti in Gran Bretagna e Olanda in cui risulta che il 37-40% delle persone è consapevole di fare un lavoro che non ha nessuna utilità sociale, il 13% non lo sa e la restante parte pensa che il proprio lavoro abbia una utilità sociale. A supporto di ciò cita il Rapporto sullo stato del lavoro aziendale negli Stati Uniti 2016-2017 che conferma questi dati. Riportiamo quindi la sua analisi che lascia sgomenti.
«In base a questa indagine la quantità di tempo che gli impiegati degli uffici americani dicono di aver dedicato ai loro effettivi compiti è scesa dal 46% nel 2015 al 39% nel 2016, a causa della corrispettiva crescita del tempo dedicato alle email (passato dal 12% al 16%), a riunioni antieconomiche (dall’8% al 10%) e a obblighi amministrativi (dal 9% al 11%). Cifre così drammatiche devono essere in parte il risultato dell’errore statistico casuale – in fin dei conti, se queste tendenze dovessero conservarsi sul serio, in meno di un decennio negli Stati Uniti non ci sarebbe più alcun impiegato che fa il suo vero lavoro –, ma se non altro l’indagine chiarisce ampiamente che (1) oltre la metà delle ore lavorative negli uffici americani va sprecata in cose senza senso e (2) il problema si aggrava. Di conseguenza si può senz’altro dire che esistono lavori in parte senza senso, perlopiù senza senso e semplicemente del tutto senza senso. Il libro (I lavori del cavolo, nda) riguarda però solo questi ultimi (o, a voler essere precisi, lavori totalmente e straordinariamente senza senso – non lavori in gran parte senza senso, nei quali la misura dell’insensatezza si aggira cioè intorno al 50%). Non intendo affatto negare che il processo che rende insensati tutti gli aspetti dell’economia sia una cruciale questione sociale. Basta considerare le cifre riportate. Se il 37-40% dei lavori è del tutto inutile e almeno il 50% delle mansioni svolte in lavori di ufficio di per sé non inutili è allo stesso tempo inutile, possiamo probabilmente concludere che perlomeno la metà di tutto il lavoro svolto nella nostra società potrebbe venire eliminato senza che faccia alcuna vera differenza. In realtà la percentuale è quasi certamente più alta, poiché così non verrebbero presi i lavori senza senso di secondo livello: ossia lavori veri fatti per supportare coloro che sono impegnati in quelli senza senso. Potremmo facilmente diventare società del tempo libero e introdurre una settimana lavorativa di venti ore, se non addirittura di quindici. Invece ci ritroviamo condannati a trascorrere la maggior parte del nostro tempo al lavoro, a svolgere compiti che ci rendiamo conto che non fanno alcuna differenza per la società».
Quindi piuttosto che fare lavori senza senso, inutili o dannosi per se stessi, gli altri e l’ambiente, forse è il caso di trovare alternative prima di sprecare la propria esistenza. Cosa aspettate? Scollocatevi!
Fonte: il Cambiamento